di Elisabetta Patruno

Pochi giorni ci separano dal Natale! Festa dell’amore, della pace, della solidarietà, della fratellanza. Ma dovunque mi giro vedo intorno a me e lontano da me un bisogno di  ”benessere” personale e sociale.  Un benessere purtroppo che dipende inizialmente dalla povertà in cui vive la maggior parte del genere umano, una povertà che l’Agenda 2030 definisce come:” la mancanza di guadagno e di risorse per assicurarsi da vivere in maniera sostenibile”.  Conseguenze inaccettabili della Povertà sono la fame e la malnutrizione, oltre all’esclusione sociale e alla la mancanza di partecipazione nei processi decisionali.

Fatti e cifre

• 836 milioni di persone vivono ancora in povertà estrema.

• Circa una persona su cinque nelle regioni in via sviluppo vive con meno di 1,25 dollari al giorno.

• La stragrande maggioranza delle persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno appartiene a due regioni: Asia meridionale e Africa subsahariana.

• Elevati indici di povertà sono frequenti nei Paesi piccoli, fragili e colpiti da conflitti.

• Tra i bambini al di sotto dei cinque anni, uno su sette non ha raggiunto una statura adeguata alla sua età.

• Nel corso del 2014, ogni giorno 42.000 persone hanno dovuto abbandonare le proprie case in cerca di protezione a causa di conflitti.

Dati e cifre che ci fanno riflettere sul cammino dell’uomo, sulle azioni che i Paesi civilizzati mettono in atto per salvaguardare l’intera umanità in pericolo. Definire la povertà è un’operazione che può sembrare semplice, perché tutti abbiamo un’idea di cosa sia la povertà, tutti abbiamo un pensiero a riguardo, delle immagini di povertà ben definite nella nostra mente. Se provo a fare un brainstorming sulla parola povertà penso a:

Si deduce che un’unica parola può definire un fenomeno complesso e multidimensionale dai tanti volti, dai tanti percorsi, dai tanti esiti. La storia della povertà si inserisce all’interno della più ampia storia della marginalità, che si è sviluppata tra il XIX e il XX secolo, ma ha assunto particolare rilievo a partire dal secondo dopoguerra. Secondo Jean Claude Schmitt (J.C. Schmitt, “La storia dei marginali” in Le Goff , La nuova storia, Milano, Mondadori, 1980, p. 260. Idem, p. 287.), l’interesse per i marginali del passato è in realtà legato alle marginalità attuali e lo storico non fa altro che cercare nel passato le risposte alle domande del suo presente. Oggi parlare di povertà, sia a livello mondiale sia locale, significa parlare soprattutto di diseguaglianza, esclusione sociale e di diritti negati.

Studiare la povertà attraverso lo sguardo storico ci permette di conoscere e confrontare le diverse costruzioni sociali del fenomeno che ogni epoca ha elaborato, alla ricerca di una risposta alle domande che interpellano anche il nostro presente: Che cos’è la povertà? Chi sono i poveri e che ruolo hanno all’interno della società? Quali interventi sono stati messi in atto per affrontare il problema della povertà? Quale approccio hanno avuto questi interventi? Quale ruolo è stato attribuito all’educazione nella prevenzione della povertà e/o nel reinserimento sociale dei poveri?

Rileggendo i dati riportati dall’Agenda 2030 si può capire che il fatto di essere nato in Norvegia o in Sierra Leone fa ancora una grande differenza nelle nostre possibilità di vita, che il reddito delle 500 persone più ricche del mondo supera quello dei 416 milioni di poveri e che il potere economico e politico dello strato più alto (gli alti dirigenti) supera persino quello di alcuni Stati.

Le disuguaglianze economiche         

(Fonte: http://babble.com/CS/blogs/strollerderby/2008/10/wage%20inequality.jpg)

Disuguaglianza non coincide con povertà, ma sappiamo che la disparità nella ricchezza si traduce in disuguaglianze di alimentazione, istruzione, assistenza medica, libertà, diritti, opportunità di vita. È chiaro dunque che per combattere le povertà delle nostre società diviene indispensabile analizzare e affrontare le disuguaglianze economiche (beni, reddito) e sociali (disoccupazione, discriminazioni di genere o etnia, esclusione dalla partecipazione politica e dai diritti di cittadinanza) presenti nei diversi contesti.

Secondo lo studio Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) Growing Unequal Incombe Distribution and Poverty in Oecd Contries, l’Italia è il paese in cui la disuguaglianza è aumentata maggiormente negli ultimi vent’anni: il reddito annuale medio del 10% più povero della popolazione italiana è di 5.000 dollari (la media Ocse è di 7.000) e secondo i dati della Banca Mondiale ha una quota di reddito pari al 2,3% del reddito nazionale, mentre il reddito del 10% più ricco è di 55.000 dollari che corrispondono al 26,3% del reddito nazionale. Per questo l’Italia con un indice di 35 si colloca al sesto posto nel ranking mondiale della disuguaglianza dietro a Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti e Polonia.    

Nei paesi Ocse è diminuita la povertà degli anziani, mentre è aumentata quella dei giovani e delle famiglie, in quasi tutti i paesi sono aumentate le disuguaglianze negli stipendi dei lavoratori ed è in aumento il numero dei lavoratori con reddito basso, il tasso di povertà delle famiglie senza reddito da lavoro è sei volte superiore a quello delle famiglie che lavorano, per le famiglie monoparentali il tasso è il triplo rispetto al resto della popolazione… Se i governi non adottassero misure (politiche fiscali e previdenziali favorevoli a i poveri, assegni sociali…) per contrastare tali disuguaglianze la situazione sarebbe ancora più critica.

Quali sono le conseguenze di queste disuguaglianze a livello locale e globale?

L’aumento degli “esclusi” dei “naufraghi dello sviluppo”, come li definisce Serge Latouche (“Nuovi abitanti e diritto alla città. Un viaggio in Italia di Francesco Lo Piccolo, AltraLinea Edizioni 2013). I poveri di cui parla Latouche hanno mille volti: i radicalmente esclusi, gli internati, i rifugiati, gli abbandonati, gli sradicati, i disoccupati, le vittime dei conflitti o delle catastrofi naturali. Gli esclusi tra gli esclusi vivono in condizioni di abbandono materiale e morale, sono invitati al grande banchetto dello sviluppo immaginato dal sogno occidentale e condannati a restare sulla porta a divorare le briciole, dicendo educatamente grazie; sono vittime del progresso, esiliati dalla modernità, esclusi che vivono l’esterno come ostile e sono visti come selvaggi dagli sviluppati… eppure proprio questi contesti di povertà secondo Latouche sono i laboratori sociali e culturali in cui può nascere un futuro possibile.

 Infatti se è vero che l’esclusione e la povertà estrema generano frustrazioni insopportabili e compromettono la sopravvivenza, nella maggior parte dei casi la reazione dei poveri è creativa, attraverso l’informale, l’autorganizzazione popolare, la solidarietà. E se la disuguaglianza all’interno di una società non può essere completamente eliminata, tuttavia può essere ridotta e limitata attraverso politiche sociali e forme di redistribuzione della ricchezza che “concorrano a formare la qualità della vita, con il duplice obiettivo di garantire a tutti pari opportunità di partenza e di aiutare ognuno ad autopromuoversi, ma insieme di permettere a tutti (anche a coloro che per vari motivi restano indietro nella corsa della vita) di raggiungere un traguardo minimo, uno zoccolo di benessere, che assicuri a tutti una vita libera e dignitosa.

Un’ultima riflessione: quale ruolo può avere l’istruzione in tema di povertà e dunque disuguaglianza sociale?

Dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo l’Unesco ha ribadito l’importanza dell’educazione, a partire dall’istruzione di base fino alla formazione continua, per il raggiungimento di obiettivi importanti quali la pace e la fine della povertà. Istruire ed educare significa infatti: dare più strumenti di lettura della realtà e di azione nel mondo, ampliare il campo delle possibilità e quindi della scelta e di conseguenza la libertà, con benefici a livello individuale e sociale. L’educazione crea le opportunità per un miglior livello di vita e senza adeguati investimenti in campo scolastico e di formazione al lavoro le comunità più povere sono destinate a rimanere escluse dai benefici della globalizzazione. L’istruzione promuove il superamento delle disuguaglianze di genere, il livello di educazione ha riflessi sulla salute (conoscenze e accesso al sistema sanitario) e l’educazione contribuisce infine alla trasformazione della comunità, sensibilizzando l’opinione pubblica nella lotta alla povertà, formando attitudini e valori (responsabilità, rispetto, tolleranza, comprensione per vivere in un mondo interdipendente) e motivando i giovani ad impegnarsi nel sociale a livello locale e globale.

Io credo in un’educazione critica dell’esistente in grado di agitare le coscienze per contrastare il conformismo e combattere le disuguaglianze, per promuovere il diritto alla differenza di ciascuno e di tutti… in un’educazione che non accetti l’esistenza di rifiuti umani, di progetti di vita falliti e irrecuperabili, di esclusi dall’istruzione, dai beni comuni, dalla società… in un’educazione capace di vedere e di rispondere anche  alle povertà del mondo ricco: la solitudine, le paure, l’insicurezza… in un’educazione che di fronte a un mondo fatto di muri, trincee, guerre, disuguaglianze, ingiustizie, povertà, sappia scovare i germi di speranza e solidarietà, aprire brecce di possibilità, fare strada all’utopia di un futuro diverso.

Soprattutto credo che l’educazione abbia un ruolo importante nella lotta alla povertà e su questa sfida concentro il mio lavoro di docente ed educatrice. Non mancano le buone pratiche già in atto in tutto il mondo che vanno in questo senso: esperienze scolastiche volte a recuperare i dispersi e gli emarginati, programmi di educazione alla giustizia sociale, educazione popolare, educazione allo sviluppo, empowerment e mediazione sociale e di comunità… dobbiamo però farle conoscerle e condividerle per costruire insieme il cambiamento.

“Come la schiavitù e l’apartheid, la povertà non è naturale. Sono le persone che hanno creato la povertà e che hanno sopportato la povertà, e sono le persone che la sconfiggeranno. E sconfiggere la povertà non è un gesto di carità. È un gesto di giustizia. È la protezione di un diritto umano fondamentale, il diritto a un vita decente e dignitosa”. [1 novembre 2006: Discorso di accettazione dell’Ambassador of Conscience Award , Nelson Mandela).

NOI CREDIAMO NELLA GIUSTIZIA!

L’articolo è al link http://www.luigimartano.it/la-rivista/magic-e-school-2019/dicembre-2019/164-agenda-2030-goals-1-poverta-zero.html