LA PERSONA PRIVA DELLA VISTA E LA CONOSCENZA DEL MONDO

di Antonio Giustino De Matteis


Le presenti riflessioni potrebbero essere innanzitutto di notevole sostegno per le tante famiglie direttamente impegnate nella gestione del complesso processo dell’educazione psicomotorio-sensoriale del proprio figlio con minorazione visiva, ma anche per i docenti e per l’intero universo della scuola. Dalla conoscenza delle presenti problematiche non possono restar fuori neppure gli operatori sociali, gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione e tutti coloro che lavorano con l’alunno per l’acquisizione della sua autonomia, né tutti coloro che, con scrupolo e consapevolezza, hanno assunto il delicato compito dell’integrazione scolastica o dell’inclusione degli alunni con minorazione visiva. A poco, del resto, sarebbe utile una acculturazione scolastica se, contemporaneamente, non si mirasse anche all’autonomia personale dell’alunno che, in ogni caso, inciderà sull’intero arco della sua vita.
Tento, infine, di dare una esplicita chiave di lettura a tutti coloro che restano ancora titubanti, increduli, scettici, se non sorpresi o sbalorditi, allorquando sono intenti ad osservare una persona con minorazione della vista nel compiere le ordinarie attività quotidiane con sbalorditiva destrezza e precisione.
Il presente lavoro, pertanto, non si prefigge il compito di indicare come ridurre le tante barriere fisiche, quanto, invece, quelle di natura psicologico e sociale tra le persone prive della vista e quelle che vedono, cercando di abbattere alcuni di quei pregiudizi, preconcetti e stereotipi che ancora persistono nei confronti delle persone con disabilità visiva.
Il mio impegno, perciò, mira a divulgare una nuova cultura della disabilità visiva, dimostrando con la massima consapevolezza che la persona priva della vista possiede – nonostante la presenza della minorazione – potenzialità intellettive assolutamente integre e del tutto analoghe a chi vede. Sono certo che sia quantomai anacronistico supporre ancora oggi che la cecità possa limitare, sic et simpliciter, le facoltà intellettive della persona in stato di disabilità visiva e, in ogni caso, se ciò dovesse verificarsi, il deficit intellettivo non può essere mai addebitato alla presenza della cecità, ma agli interventi educativi errati, tardivi o inefficienti.
Sarebbe opportuno, però – constatando le attitudini intellettive e di autonomia personale di chi non vede – non continuare a credere che il privo della vista possegga facoltà intellettive per “grazia ricevuta”, a mo’ di semplice “remunerazione” o “compensazione”, per la privazione della funzione visiva.
La “compensazione sensoriale” non va assolutamente intesa come volgarmente si è indotti a credere, che essa sia il naturale accrescimento o aumento dei “sensi residui”, ma come il frutto di un paziente atto educativo che, in estrema sintesi, è da ricondursi ad un adattamento delle funzioni intellettive che aiutano, anche in maniera molto intuitiva, la persona priva della vista ad avvalersi di tutte le forme usuali di linguaggio che sono specifiche di ogni canale sensoriale, soprattutto di quelle considerate di secondo ordine dalla persona che vede.
E sono proprio tali pregiudizi o tali incomprensioni che frequentemente inducono chi vede ad interrogarsi: “la persona che non vede riesce a conoscere concretamente il mondo sensibile, quello reale, quello circostante? Ed ha le capacità per immaginarselo in tutta la sua concretezza”?
La risposta, ovviamente, non può sintetizzarsi né in una frettolosa ottimistica o negativa affermazione, magari logorroica e teorica e priva di qualche sperimentazione sul campo. Ad una domanda così complessa, gli stessi ipotetici interlocutori desiderano ricevere risposte convincenti ed articolate e non certamente informazioni astratte, nebulose, indefinite, scarne per i dettagli o, ancor peggio, prive di qualsiasi sperimentazione con la realtà.
Nella vita di tutti i giorni la persona che vede, solitamente, prova un’immensa difficoltà o un certo scetticismo ad ammettere che il mondo si possa conoscere, al di là della funzione visiva, anche mediante altri sensi, definiti, appunto, “sensi residui” o “vicarianti” e, in maniera più specifica, mediante l’udito, il tatto e la “percezione aptica”.
Chi vede, infatti, poiché solitamente si affida quasi completamente alla funzione visiva – organo prevalentemente “dominante”, se non addirittura “dittatoriale” rispetto agli altri canali sensoriali – è indotto a pensare che la conoscenza del mondo sia il frutto unicamente delle sensazioni visive.
È luogo comune ritenere, ed è una consuetudine alquanto consolidata, che tutto si veda con gli occhi; e, invece, anche quando si è in possesso di una vista del tutto normale, non sempre si “coglie” ciò che si “vede”. Del resto, “guardare”, “osservare”, “analizzare”, “scrutare” non sono assolutamente sinonimi di “vedere”. Il vedere costituisce semplicemente una azione, una facoltà della vista, un atto fisiologico prevalentemente spontaneo; osservare (assieme agli altri sinonimi), invece, costituisce una propensione che richiede attenzione, la volontà di riflettere su quanto si vede; significa percepire l’essenza formale degli oggetti, l’interazione esistente tra un oggetto e l’altro e tra gli oggetti e lo spazio nel suo insieme e, in ultima analisi, l’interazione tra gli oggetti e lo stesso osservatore. Il semplice vedere senza osservare, significa soffermarsi soltanto sul significante e non sul significato della realtà; si considera sufficiente il contenuto delle prime sensazioni dell’atto visivo, la semplice apparenza di quell’oggetto, senza prefiggersi di andare oltre alla superficiale sensazione di ciò che si vede: “la vera essenza della realtà”. Non mediante le scarne e spesso fallaci sensazioni, ma mediante un atto percettivo intenzionale si prende coscienza del mondo che ci circonda. È l’atto percettivo che – divenuto conoscenza dell’oggetto che si osserva e consapevolezza dell’insieme della presenza degli oggetti – che concorre a strutturare l’ambiente naturale nella sua complessità.
Affidandosi, pertanto, unicamente alle sensazioni visive, senza considerare anche la partecipazione degli altri organi di senso, la conoscenza resta parziale e limitata. Se, infatti, ci abituassimo a prestare maggior credito anche agli altri quattro organi sensoriali, ci accorgeremmo che dall’ambiente circostante si ricevono costantemente interminabili sensazioni che, se fossero utilizzate con la giusta convenienza, avremmo della realtà sensibile una conoscenza più varia, completa e realistica.
È importante rammentare, poi, che, nel primo momento dell’atto conoscitivo – di tutto ciò che ci accade attorno – noi cominciamo ad avere consapevolezza soltanto quando le sensazioni vengono assunte in carico dall’intelletto; solo allora si è consapevoli di quanto visto, di quanto toccato, udito, odorato, gustato. È in questa successiva fase che si coglie pienamente la realtà; non in quella precedente, poiché l’ambiente può essere colto in maniera non chiara o realistica dalle semplici sensazioni. Nel primo stadio si è coinvolti soltanto superficialmente dalle sensazioni, poiché queste mancano ancora di obbiettività, di oggettività e del vaglio razionale.
Riesce difficile supporre, poi, che al complesso processo della conoscenza possano concorrere, con il medesimo contributo e con la stessa incisività, le sensazioni tattili, acustiche e anemestesiche.
Nel corso del presente lavoro, infine, verranno suggerite, di volta in volta, le modalità più opportune e confacenti, affinché il “percepire” per la persona che non vede diventi una normale “abitudine”, una autentica “educazione” nel “cogliere a volo” qualsiasi sfumatura sensoriale per un normale processo conoscitivo.
Mi scuso con tutti coloro che hanno la costanza e la pazienza di leggermi, se anche in questa circostanza mi prodigo per sfatare uno dei pregiudizi più diffusi: nella persona priva della vista che è riuscita ad educare apprezzabilmente la sua sensorialità, non esiste la cosiddetta “compensazione dei sensi”, né i privi della vista dispongono di misteriosi poteri. La scienza tiflologica ha affermato che esiste soltanto il personale esercizio, mediante il quale i sensi residui vengono sviluppati e affinati, tanto da acquisire una capacità intelligente e per nulla affidata alla casualità.
È opportuno, infatti, che chi non vede si abitui (si educhi) a cogliere, attraverso le sensazioni, ogni minima variazione o sfumatura d’intensità di esse, al fine di individuare e meglio riconoscere non soltanto gli oggetti che si presentano direttamente o naturalmente sotto il controllo tattile (a contatto), ma anche gli ostacoli fisici più lontani che si possono avvertire a distanza, mediante la sensorialità uditiva. Il non vedente che, attraverso l’esperienza quotidiana, ha educato convenientemente la sua sensorialità globale, saprà anche cogliere la presenza di ostacoli, pur se posti ad una ragionevole distanza, dei quali apprenderà a discriminarne anche la struttura globale.
Il conseguimento di tali specifiche abilità – pur se devono ritenersi di considerevole rilevanza – non può costituire assolutamente l’unico obiettivo percettivo, tant’è che la persona che non gode della funzione visiva, in realtà, durante l’intero arco della sua esistenza, sarà chiamata sicuramente ad affrontare difficoltà ben più ardue.
In seguito, poi, quando avrà appreso ad esplorare attentamente il mondo circostante mediante il tatto ed a memorizzare le forme nella loro essenzialità, apprenderà non soltanto a cogliere negli oggetti i minimi dettagli che differenziano quell’oggetto dagli altri, ma anche a individuare tra i tanti oggetti appartenenti alla stessa classe, proprio “quel determinato oggetto” per le sue particolari e minime differenziazioni.
Raggiunto un traguardo, comunque, è doveroso andare ancora oltre.
La conoscenza degli oggetti e la discriminazione degli ostacoli, infatti, resterebbe ancora un obiettivo molto modesto e limitato se ad essa non tenesse dietro la “comprensione dell’entità spazio” e la “interiorizzazione delle “strutture e degli schemi spaziali e immaginativi”.
Quando si affronta l’argomento della interiorizzazione dello spazio, non s’intende riferirsi a quel “senso di vuoto” che talvolta si avverte tutt’attorno a secondo del personale stato d’animo. Lo spazio al quale si fa riferimento, invece, è quel sistema universale nel quale si è collocati e nel quale riusciamo a riconoscere noi stessi e a differenziare noi dalle altre persone e dagli oggetti, quali “entità” diverse da noi, ma con le quali ci rapportiamo continuamente.
Nel caso della persona priva della vista, “rapportarsi” significa saper assumere coscientemente una determinata “posizione nello spazio” e, quindi, sapersi “orientare” nei confronti di tutto ciò che circonda la persona, sia quando fisicamente essa si allontana o si avvicina agli oggetti, sia quando si rappresenta immaginativamente luoghi situati a breve o notevole distanza. Sotto questo profilo, lo “spazio”, di conseguenza, assume una connotazione oggettiva, un vissuto concreto che si concretizza e si rappresenta mediante una complessa rete di relazioni, comprensibile anche in assenza della funzionalità visiva.
L’interiorizzazione dello spazio, poi, come è stato più volte sottolineato, non avviene solamente attraverso la funzione visiva, ma anche mediante gli altri organi sensoriali ed in maniera più specifica con quelli dell’udito e del tatto. Tali organi sensoriali, infatti – proprio per la loro funzione parallela e, nel caso del non vedente, funzione sostitutiva della vista mancante – vengono definiti convenzionalmente “organi vicarianti” della vista.
Per la persona non vedente, poi, perché tali organi sensoriali si trasformino in altrettante modalità ricettive valide, è necessario che le azioni si colgano nella realtà fenomenica in “situazione dinamica”, considerato che, come vedremo nelle pagine seguenti, la conoscenza sensoriale, in assenza di movimento, è impossibile.

La percezione spaziale e la persona non vedente

Nelle pagine precedenti sono state poste le basi sulle quali sarà enunciato l’intero processo conoscitivo concernente la persona priva della vista.
Nel presente studio, infatti, saranno illustrate, l’una dopo l’altra e secondo una deduzione logica, le diverse fasi di tale processo. È ovvio che la comprensione sarà facilitata se si terrà presente quanto già riportato in altri scritti riguardanti l’“educazione senso-percettivo-motoria” del bambino privo della vista, a partire dalle primissime fasi della sua esistenza.
Cerchiamo, perciò, di procedere con ordine.
La persona che non vede attinge fondamentalmente – come è stato più volte sottolineato – il “materiale per la conoscenza del mondo sensibile” attraverso tre canali o campi percettivi: quello “tattile”, quello “acustico” e quello “aptico”.
Quando la persona priva della vista è intenta a cogliere (o a registrare) la complessità delle sensazioni provenienti dal mondo circostante, non resta assolutamente in “atteggiamento mentale assente o statico e neppure in un totale immobilismo psicologico”. Tale atteggiamento è inconcepibile persino in questa primissima fase della conoscenza, durante la quale sembra persino irrilevante la funzione dell’“attenzione” o della “coscienza” nel cogliere le sensazioni provenienti dai “canali vicarianti”, utili e necessarie per “comprendere lo spazio euclideo”.
Sembra opportuno sottolineare, però, che già in questo primo stadio, tanto il materiale tattile quanto quello sonoro – pur non potendolo considerare “prevalente” o “dominante” alla stessa stregua delle sensazioni visive – esse assumono già una funzione ed un ruolo di primaria importanza rispetto alle sensazioni provenienti dagli altri due canali, quello del gusto e quello dell’olfatto.
Al fine di avere un quadro più chiaro, osserviamo quanto accade nel bambino che vede. Sino all’età di due/tre mesi la visione non si è ancora specializzata o differenziata dalle percezioni provenienti dagli altri organi sensoriali, né lo spazio visivo è separato o contraddistinto da quello tattile o da quello uditivo. Le tre diverse modalità ricettive, infatti, non solo collaborano strettamente tra loro, ma si integrano e si completano reciprocamente.
In questa fascia di età, anche l’azione del tatto e dell’udito procede in analogia a quella della visione.
Tale processo di acquisizione sensoriale è altrettanto analogo nel bambino che non vede. Anche in questi, infatti, la sensorialità è indifferenziata e solo in un momento successivo, attorno ai cinque-sei mesi, essa comincerà a differenziarsi e a specializzarsi, sempre che, ovviamente, il piccolo riceva sollecitazioni continue e qualitativamente valide da parte di coloro che gli sono vicino. Non sarà mai superfluo sottolineare tale raccomandazione, considerato che da tali buone prassi dipenderà l’intero processo conoscitivo per chi non vede. Sarà utile e necessario, infatti, anche durante la primissima infanzia, che non sia impedita o limitata al bambino l’esplorazione tattile di quanto è presente nel suo campo d’azione. Il piccolo, semmai, dovrà essere opportunamente stimolato e guidato a “raggiungere, a toccare ed esplorare” tutto ciò che di sonoro avverte attorno a sé.
Sarà sempre opportuno, ovviamente, rispondere con la necessaria pazienza e senza frapporre limitazioni o impedimenti al desiderio o al tentativo del bambino di allungare le manine o, addirittura, di protendersi con tutto se stesso per raggiungere un qualcosa che, pur essendo lontano da lui, ne avverte la presenza per la sua sonorità.
Non frustrare o spegnere, quindi, quella tenue scintilla interiore che il bimbo potrebbe avvertire e che lo motiverebbe a muoversi “verso” o nella “direzione” di una persona o di un oggetto da raggiungere. Quando ciò si dovesse manifestare dovrà essere motivo di giubilo, poiché nel piccolo comincia a manifestarsi, sia pure inconsapevolmente, una embrionale intuizione dello spazio. L’oggetto che il piccolo tenta di raggiungere è avvertito già come “lontano” da sé; che non appartiene a sé, che è altro da sé, che è fuori da sé e che, pertanto, merita di essere raggiunto, esplorato e “conosciuto”.
La ricerca sull’argomento ha mosso significativi passi in avanti, tant’è che oggi, in merito alla conoscenza spaziale di chi non vede, si possono riportare non più semplici ipotesi o congetture, ma teorie psicologiche e scientifiche, serie e rigorosamente comprovate.
Ad affermare ciò molto hanno contribuito tre grandi tiflologi italiani: Augusto Romagnoli, Enrico Ceppi e Mario Mazzei, tutti e tre emeriti ricercatori, insigni pedagogisti e psicologi anche loro privi della vista.
Partendo dalla loro personale esperienza, infatti, hanno dimostrato che le persone prive della vista non soltanto hanno la potenziale capacità di rappresentarsi immaginativamente gli oggetti – sia nella loro forma globale, sia nei loro dettagli – ma posseggono anche la necessaria intelligenza per comprendere “l’entità spazio” e la stretta connessione esistente tra i vari oggetti che animano od occupano quella “entità definita spazio”.
La minorazione della vista di per sé, pertanto, non elimina assolutamente né impedisce alla persona cieca l’attitudine a comprendere la reale essenza della “spazialità”, né, conseguentemente, limita o circoscrive la conoscenza del mondo nella sua effettiva realtà.
Durante la prima metà del secolo scorso, collateralmente alle indagini condotte dai nostri due tiflologi, A. Romagnoli ed E. Ceppi, un’altra scuola di pensiero o, se si preferisce, un altro filone psicologico speculativo si andava affermando in Europa e più specificatamente in Germania. Tali studi venivano effettuati dalla “Gestalt”, che ha indagato sulla teoria della “struttura degli oggetti”, sulla loro “forma globale” e sulle loro composizioni delle “singole parti”.
Attraverso un interessante studio del 1936, dal titolo “Psicology and art of the blind” (psicologia dell’arte dei ciechi), Géza Révész, psicologo appartenente alla “scuola gestaltiana”, proponeva un’analisi comparativa tra la percezione dell’organo sensoriale visivo con la percezione tattile. Le due fonti percettive considerate erano rispettivamente definite dal Révész “dimensione ottica” e “dimensione aptica”. L’autore, nella trattazione dell’opera, facendo affidamento sia sulle sue intuizioni che sulle sperimentazioni scientifiche, affermava che i due approcci conoscitivi sensoriali – anche se, per chi non aveva mai visto, comporta inevitabilmente alcune differenziazioni per quanto attiene la luminosità e la cromaticità degli oggetti – non conducono assolutamente a concludere che i due piani conoscitivi siano differenti e separati l’uno dall’altro.