(Trattato del prof. De Matteis)

Una stimolante domanda:
La cecità limita le facoltà dell’intelletto?

Anche se le scienze umane, e la psicologia innanzitutto, hanno
effettuato progressi inimmaginabili in merito alla conoscenza della
psiche e all’intelletto dell’uomo, da qualche parte si legge ancora, o
si continua a ripetere – e non certo basandosi su ricerche
scientifiche e neppure sperimentali, ma semplicemente su pregiudizi
alquanto bizzarri se non da primo medioevo – che le facoltà
intellettive di un bambino privo della vista di sei anni è comparabile
a quello di un coetaneo vedente di tre.
Coloro che perseverano nell’affermare simili stereotipi ignorano, o
intenzionalmente intendono ignorare, che un tentativo di
sperimentazione del genere è davvero avvenuta negli Stati Uniti
d’America attorno alla seconda metà dell’ottocento, quando la
psicologia, tra l’altro, cominciava appena appena a balbettare o a
muovere i suoi primi passi. L’indagine, infatti, è stata
effettivamente condotta, ma soltanto con diciassette bambini,
istituzionalizzati sin dal primo anno di vita, abbandonati o
provenienti da strati sociali poverissimi e non acculturati. La
sperimentazione fu affidata – e questo è un altro elemento ancor più
grottesco – ad alcuni istitutori/educatori che nulla avevano da
spartire con le prassi educative o con la psicologia, intesa come
scienza, così come si è affermata ai giorni nostri.
Quel che mi turba e mi preoccupa profondamente, però, non è tanto che
quella improvvida sperimentazione sia stata condotta da mani e menti
inesperte e maldestre, quanto, piuttosto, che tale preconcetto aleggi
ancora oggi in qualche corridoio o in qualche “aula della sventura” (
). Eppure, tutto ciò contrasta e stride profondamente con i numerosi
successi raggiunti da parte di tante persone prive della vista che si
sono affermate in maniera eccelsa nei più impegnativi e difficoltosi
ambiti professionali. Ma, come accade spesso, quando ci si ostina a
non voler guardare oltre il proprio naso – perché la mente è impedita
ed offuscata da disturbanti pregiudizi – allora anche le tante
esperienze positive e i tanti traguardi conseguiti con merito,
finiscono per non avere alcun significato.
Il rischio è ricorrente e serio, soprattutto quando, anche se
inconsapevolmente, simili convincimenti influenzano negativamente la
modalità d’intervento delle prassi educative, sia di quelle poste in
essere dai genitori, sia di quelle attuate dagli educatori scolastici.
Partendo da tali convincimenti, è ovvio che si abbassi notevolmente la
soglia delle aspettative nei confronti del figlio o dell’alunno privo
della vista, con la inconsapevole conseguenza di una riduzione
dell’impegno educativo, poiché prevale l’opinione che dagli alunni
privi della vista non ci si può attendere il raggiungimento di
obiettivi normali.
 Se tale ipotesi fosse vera, si dovrebbe inevitabilmente concludere
che tutti i non vedenti, nella loro totalità, dovrebbero manifestare
gravi ritardi a livello intellettivo.
Sono da ritenersi davvero “teorie valide”, anche quelle che non sono
suffragate da replicati e convalidati test scientifici o sono da
considerarsi semplicemente opinioni, fake news utili ad alimentare la
già lunga schiera di pregiudizi che gravano sulle persone prive della
vista?
E se è vero che in qualche circostanza – ed è doveroso ed onesto
ammetterlo – alcuni bambini con minorazione visiva dovessero
manifestare un rallentamento sia sull’apprendimento, sia sull’attività
“senso-percettivo-motoria” o su quella della
“rappresentazione-grafico-mentale”, tale ritardo sarebbe
comprensibile, ma assolutamente non addebitabile ad una deficienza
dell’intelletto, ma alla deprivazione di tante esperienze conoscitive
delle quali quei bambini non hanno usufruito a causa della
iperprotezione “subita” in famiglia. È tanto vero che quel ritardo,
appena il processo educativo riprenderà il suo andamento normale, sarà
colmato, soprattutto se al piccolo saranno somministrate
sollecitazioni atte a sviluppare le sue intrinseche potenzialità e non
sarà più succube o condizionato da limitazioni esterne.
A tal proposito, mi sembra opportuno riportare, infatti, quanto
sperimentato scientificamente da Yvette Atwell, scrupolosa psicologa
pragmatica e allieva del più famoso Jean Piaget. Ella – dopo anni ed
anni di sperimentazioni con numerosissimi bambini ciechi – affermava
che l’eventuale ritardo o il gap che talvolta si riscontra è
assolutamente colmabile, soprattutto quando si interviene con
tempestività e con corrette ed adeguate pratiche educative
senso-percettive-motorie.
Qualcuno potrebbe avere qualche difficoltà a riconoscerlo, lo so bene,
ma non credete che un analogo ritardo si verificherebbe ugualmente
anche in un bambino con la vista se questi subisse sollecitazioni
comunicative-relazionali altrettanto carenti o tardive?
L’eventuale ritardo, pertanto, ritengo che non si possa attribuire in
alcun caso alla congenita differenziazione dell’intelletto tra chi ha
una normale funzionalità visiva e chi ne è privo; ma, semmai, si dovrà
far risalire a cause puramente contingenti e facilmente individuabili.
Il bambino che vede – e ritengo che almeno ciò sia facilmente
comprensibile – entra in contatto con il mondo circostante, con il
mondo della realtà sensibile, in maniera spontanea, immediata e
diretta, poiché è attratto dalla infinita cromaticità degli oggetti,
verso i quali è spronato interiormente a “muoversi” e a raggiungerli.
Il bambino che non vede, invece – pur trovandosi ugualmente immerso in
una moltitudine di oggetti inanimati e insonori – dovrà essere
costantemente sollecitato a muoversi verso di essi, suscitando in lui,
magari, particolari interessi. Ritengo anche, poi, che tale
apprensione o sforzo richiedano un maggiore impegno e un tempo più
prolungato, perché la persona priva della vista abbia l’opportunità di
conoscere “palmo a palmo” quanto gli è attorno ed affinché i risultati
siano pertinenti e analoghi.
Ritengo ragionevole, quindi, poter affermare che molti limiti
sensoriali riscontrabili a causa della cecità siano condizionamenti
che, mediante l’esercizio quotidiano e l’impegno della famiglia, della
scuola e quello personale, saranno sicuramente superati.
“Sic stantibus rebus” – avrebbero detto i nostri padri latini – siamo
ancora davvero certi ed autorizzati a credere (o ad affermare) che sia
proprio la cecità ad imbrigliare o a limitare l’intelletto? Non
sarebbe più veritiero e onesto riconoscere, invece, che sia
l’insufficiente o tardiva erogazione di alcuni interventi, tendenti
all’affinamento o, ancor più correttamente, all’educazione degli altri
sensi vicarianti a determinare l’iniziale ritardo sullo sviluppo della
sensorialità percettiva e, conseguentemente, sulla conoscenza del
mondo sensibile in coloro che non vedono?
Vi saluto e vi invito cortesemente a riflettere, gentilissimi amici,
su queste mie considerazioni.
Antonio Giustino De Matteis