Abbiamo dibattuto, in questi giorni, sulla opportunità e sull’efficacia della didattica digitale e sulla necessità di restare comunque, in maniera più competente o meno competente, accanto ai nostri alunni e ai loro genitori per gestire col minor danno possibile questo difficile momento.

La costernazione per la superficialità con cui alcuni giovani stanno compiendo scelte relazionali che irridono o sottovalutano la delicatezza del momento, mi fa venire in mente considerazioni su emergenze educative che vanno al di là della didattica digitale.

Da tempo discutiamo, nella scuola, sulle forme e sui modi con cui interpretare una educazione alla cittadinanza diffusa, continua ed efficace. L’educazione civica è diventata oggetto di una legge che, bene o male, focalizza alcuni obiettivi che in un Paese democratico sono fondamentali: “formare cittadini responsabili e attivi e promuovere la partecipazione piena e consapevole alla vita civica, culturale e sociale delle comunita’…”. Si tratta, nella legge, di un obiettivo “trasversale”, cioè affidato agli insegnanti di tutte le discipline.

La possibilità di fare “lezione a distanza” con l’uso delle nuove tecnologie è santa cosa, ma cosa ci mettiamo dentro, in questo momento di grave emergenza? Oggi, la capacità dei nostri ragazzi di rinunciare al pub, agli incontri fra amici, al panino da Mc Donalds, è capacità d’esser cittadini. E’ comprensione e rispetto del bene comune. E’ “partecipazione piena e consapevole alla vita civica, culturale e sociale della comunità”. Forse in questo momento l’emergenza educativa non è l’autore della letteratura da portare agli esami, forse è più urgente l’educazione alla cittadinanza necessaria per far comprendere, attraverso qualsiasi canale e con qualsiasi strategia, non solo la gravità del problema, ma la inderogabilità delle responsabilità individuali nei confronti di se stessi e della comunità.

Scrive oggi Luca Sofri che la cosa più spaesante di questa crisi senza precedenti sta nel fatto che non si manifesta visibilmente e drammaticamente se non negli ospedali e nell’astratto dei numeri del contagio. “Le cose che si fanno, i gesti, i modi di vivere, sono molto “normali” e molto poco ansiosi. Ci si lavano le mani, si sta molto a casa, si sta distanti nelle code in attesa. Ma niente di tutto questo è inaudito, mai visto. C’è insomma un’emergenza enorme “intorno” e non la si vede, non si riesce a vederla nelle singole cose: se scendo a fare la spesa e risalgo, nel percorso e nelle cose che faccio non c’è niente di diverso da un anno fa. A differenza delle emergenze mondiali che hanno occupato i media negli ultimi decenni, questa non ha le immagini, per esempio: è tutto mascherine, per la disperazione dei foto editor. Sta succedendo una cosa enorme, planetaria, senza precedenti dalla fine della Guerra Mondiale: e intanto andiamo a fare il bancomat, e ci facciamo il caffè. Questa dissociazione non aiuta a dare il senso di gravità e di necessità richiesti e indispensabili”.

I ragazzi, i giovani, sono quelli ai quali l’apparente ordinarietà delle azioni quotidiane può rendere più difficile la comprensione dell’emergenza.

Penso che oggi la responsabilità prioritaria dei genitori e degli insegnanti sia non quella di “spaventare” i ragazzi, ma quella di far loro percepire la gravità della situazione e la indispensabilità del loro apporto alla vita e alla salute della comunità. Ogni disciplina, oggi, DEVE, io penso, diventare educazione civica, una educazione civica contestualizzata e consapevole.

E quanto alle letture che occupino il tempo di insegnanti e studenti, magari provate a leggere e a far leggere Spillover, di David Quammen, edito da Adelphi. Lo discuterete quando tutto questo (speriamo presto) sarà finito.

Dirigente Rita Bortone